E' assai difficile dissentire dall'opinione generale (meglio, del mondo mediatico tutto) che in queste ore saluta l'addio terreno di Helmut Kohl con la deferenza dovuta ad un uomo di stato che ha saputo, riuscendovi, imprimere una svolta politica decisiva alla storia europea.
La sua grandezza di statista è indiscutibile dal punto di vista tedesco, perché con lui la storia della Germania è uscita definitivamente, dall'immaginario collettivo, come storica e prima responsabile di due guerre mondiali e di forsennate e criminali ideologie razziali.
E' comunque un interrogativo legittimo il chiedersi se, parimenti con tutti gli altri capi di stato e di governo a lui coetanei e poi successivi, egli non sia responsabile di una politica che ormai caratterizza l'Europa come sempre più distante dalle primitive connotazioni ideali, politiche ed istituzionali, che la concepirono.
Una Europa che di fatto, al di là delle sue formulazioni ufficiali, è tutto tranne che una Federazione di stati, assolutamente priva di quel minimo di coesione politica e sociale che ne doveva costituire il principale presupposto unitario e, nel panorama globale, la speculare garanzia democratica sulle due sponde dell'oceano Atlantico.
Le ragioni della crisi del processo unitario europeo sono molteplici ma, in senso specifico, scaturiscono dalle vistose differenze economiche tra le nazioni che ne fanno parte.
Differenze che sono a loro volta causa di crescenti rapporti egemonici politici fra le nazioni stesse.
Ciò è avvenuto soprattutto per il peccato originale di una conversione monetaria che fu guidata dalla Germania e subita, quanto meno non contrastata, dagli altri paesi aderenti all'euro, precisamente durante il cancellierato di Helmut Kohl.
Una conversione concepita nel più esemplare diniego di quello che doveva, anche sul piano dottrinale, essere un rapporto di media ponderata fra i poteri d'acquisto dei singoli paesi aderenti,
In particolare per il nostro paese, e per il metodo di calcolo della nostra lira, in ordine al quale giova rifarsi alla concisa ma significativa ricostruzione contenuta in un libro intervista di Romano Prodi ("Missione incompiuta" a cura di Marco Da Milano - Editori Laterza, 2015).
In poche righe, infatti (pag.94), dalle parole di Prodi emerge quasi spontaneamente l'abile dissimulazione negoziale del suo interlocutore, appunto il cancelliere Kohl.
Che appunto (1998) approfittò di un distratto schema concettuale del premier italiano illusoriamente teso a conservare, con la moneta unica, le stesse condizioni di vantaggio nel cambio monetario lira/marco per gli esportatori italiani.
Fu così fissato un cambio di 990 lire per un marco, mentre proprio la moneta unica annullava ogni ipotesi di ricorso alla cosiddetta svalutazione competitiva: operando, in tal guisa, si verificò una tosatura di incalcolabile e perdurante ammontare, a danno di tutti i redditi storicamente eredi della lira, vittime di una vera e propria espropriazione di potere d'acquisto.
Tutto ciò senza tenere minimamente conto delle masse monetarie in quel momento circolanti:le tedesche (dopo l'unificazione est -ovest), le italiane e quelle di tutti i paesi aderenti all'euro. .
Se, dopo di allora, ad onta di tutti i sacrifici cui il contribuente italiano ha dovuto assecondare (e nonostante le fasi di bassi prezzi internazionali dell'energia, del "quantitative easing" e dei livelli minimi di costo del denaro), il nostro Debito pubblico è cresciuto incessantemente (fino all'attuale livello di 2.270 miliardi di euro) dobbiamo riconoscere le radici fondamentali di tale indebitamento, esattamente in quel meccanismo di conversione.
Riesce dunque difficile riconoscere specifiche benemerenze di grande statista a Kohl, che pur lo fu, e continua ad esserlo per i tedeschi, ma forse non per l'Europa e sicuramente non per l'Italia.
Fu grande imperatore e grande condottiero anche Federico Barbarossa, ma, per gli italiani, egli fu e rimase soprattutto il grande avversario delle nostre libertà comunali.
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