Eccoci dunque qui, noi italiani, tanto per gradire, malconci ed ammoniti: lo possiamo dedurre esplicitamente da un rapporto interno della Banca Centrale Europea, con la firma di noti economisti suoi collaboratori: Juan Luis Diaz, Ettore Dorrucci, Frigyes Ferdinand Heinz e Sona Muzikarova.
Questi importanti collaboratori della Bce hanno elaborato il loro rapporto - di cui ci ha ampiamente reso edotti l'editorialista Federico Fubini su Corsera del 5 dicembre - con lo scopo precipuo di dimostrare che i grandi ritardi dell'economia italiana non sono dipesi dalla crisi mondiale scaturita nel 2007 dallo scoppio della bolla dei sub-prime nel 2007 e originata negli Usa.
Nella loro analisi, gli esperti di Francoforte si rivolgono infatti ai loro colleghi italiani, per indurli ad un metodologico e più attento esame critico degli errori di gestione commessi dalle classi dirigenti politiche ed economiche italiane che ne sono dunque le dirette e quasi esclusive responsabili.
Gli stessi autori peraltro non esitano, preliminarmente, a dissuadere l'opinione pubblica italiana dall'affezionarsi ad interpretazioni vittimistiche della grave regressione in cui si trova tuttora impigliata la politica economica del nostro paese.
E' oltremodo controproducente considerare i guai nazionali come conseguenze di errori e di impostazioni strategiche decise a Bruxelles, a Francoforte o perfino di intese egemoniche fra Parigi e Berlino.
Rivolgendosi poi specificamente ai tedeschi ancor prima che a noi, gli economisti della Banca Centrale Europea sottolineano addirittura che il nostro problema fondamentale non si identifica nell'enormità del Debito Pubblico né tanto meno nella costante ripetitività dei nostri deficit d'esercizio.
La diagnosi del rapporto tedesco (che Fubini asseconda, rafforzandola) è chiara: l'Italia deve soprattutto convincersi di essere essa sola a rispondere della somma crescente di difficoltà piovutele addosso dopo l'unificazione monetaria.
Lo dimostra - spiega il rapporto - la circostanza che "...dall'inizio dell'euro [cioè prima del verificarsi della crisi del 2007, n.d.r.] ha perso l'enormità di un quarto del reddito pro-capite - un record - rispetto alle medie europee".
Ma proprio questa ultima precisazione suscita una doverosa incredulità e rende vulnerabile tutta l'impostazione di questi saggi di Francoforte, che ci conferma, al di là della sua fondatezza, quanto sia conveniente classificare l'Italia come paese che ha quello che si merita.
Non sorprende infatti la puntigliosa costellazione di criticità, incluse quelle consuete del malcostume diffuso, perché dispensa l'Unione europea da ogni corresponsabilità rispetto allo stato incombente di default che caratterizza il bilancio pubblico italiano.
Ma se a quelle criticità affianchiamo doverosamente l'individuazione delle conseguenze di una conversione monetaria iniqua che ha caratterizzato la nostra moneta nei confronti dell'euro (e principalmente a speculare vantaggio della conversione del marco tedesco) emergono nettamente due interrogativi specifici di assai più significative dimensioni.
Li rivolgiamo ai tecnici monetari di quella Bce ma soprattutto al loro Presidente Mario Draghi, monetarista di larghissimo prestigio internazionale.
Non sembra infatti verosimile che quel denunciato "un quarto del reddito pro-capite perso dall'inizio dell'euro" possa essere esattamente riconducibile all'assurdità del coefficiente adottato per la conversione lira/euro ?
E, parimenti, l'elevata svalutazione della lira non potrebbe aver generato una espropriazione, tuttora perdurante, del potere d'acquisto della massa monetaria disponibile per i consumatori italiani ?
Questi importanti collaboratori della Bce hanno elaborato il loro rapporto - di cui ci ha ampiamente reso edotti l'editorialista Federico Fubini su Corsera del 5 dicembre - con lo scopo precipuo di dimostrare che i grandi ritardi dell'economia italiana non sono dipesi dalla crisi mondiale scaturita nel 2007 dallo scoppio della bolla dei sub-prime nel 2007 e originata negli Usa.
Nella loro analisi, gli esperti di Francoforte si rivolgono infatti ai loro colleghi italiani, per indurli ad un metodologico e più attento esame critico degli errori di gestione commessi dalle classi dirigenti politiche ed economiche italiane che ne sono dunque le dirette e quasi esclusive responsabili.
Gli stessi autori peraltro non esitano, preliminarmente, a dissuadere l'opinione pubblica italiana dall'affezionarsi ad interpretazioni vittimistiche della grave regressione in cui si trova tuttora impigliata la politica economica del nostro paese.
E' oltremodo controproducente considerare i guai nazionali come conseguenze di errori e di impostazioni strategiche decise a Bruxelles, a Francoforte o perfino di intese egemoniche fra Parigi e Berlino.
Rivolgendosi poi specificamente ai tedeschi ancor prima che a noi, gli economisti della Banca Centrale Europea sottolineano addirittura che il nostro problema fondamentale non si identifica nell'enormità del Debito Pubblico né tanto meno nella costante ripetitività dei nostri deficit d'esercizio.
La diagnosi del rapporto tedesco (che Fubini asseconda, rafforzandola) è chiara: l'Italia deve soprattutto convincersi di essere essa sola a rispondere della somma crescente di difficoltà piovutele addosso dopo l'unificazione monetaria.
Lo dimostra - spiega il rapporto - la circostanza che "...dall'inizio dell'euro [cioè prima del verificarsi della crisi del 2007, n.d.r.] ha perso l'enormità di un quarto del reddito pro-capite - un record - rispetto alle medie europee".
Ma proprio questa ultima precisazione suscita una doverosa incredulità e rende vulnerabile tutta l'impostazione di questi saggi di Francoforte, che ci conferma, al di là della sua fondatezza, quanto sia conveniente classificare l'Italia come paese che ha quello che si merita.
Non sorprende infatti la puntigliosa costellazione di criticità, incluse quelle consuete del malcostume diffuso, perché dispensa l'Unione europea da ogni corresponsabilità rispetto allo stato incombente di default che caratterizza il bilancio pubblico italiano.
Ma se a quelle criticità affianchiamo doverosamente l'individuazione delle conseguenze di una conversione monetaria iniqua che ha caratterizzato la nostra moneta nei confronti dell'euro (e principalmente a speculare vantaggio della conversione del marco tedesco) emergono nettamente due interrogativi specifici di assai più significative dimensioni.
Li rivolgiamo ai tecnici monetari di quella Bce ma soprattutto al loro Presidente Mario Draghi, monetarista di larghissimo prestigio internazionale.
Non sembra infatti verosimile che quel denunciato "un quarto del reddito pro-capite perso dall'inizio dell'euro" possa essere esattamente riconducibile all'assurdità del coefficiente adottato per la conversione lira/euro ?
E, parimenti, l'elevata svalutazione della lira non potrebbe aver generato una espropriazione, tuttora perdurante, del potere d'acquisto della massa monetaria disponibile per i consumatori italiani ?
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