L'analisi e l'interpretazione corrente (quotidiani, periodici, reti radiotelevisive, degli stessi esponenti politici) dell'esito complessivo delle elezioni politiche elettorali del 4 marzo scorso, sono ancora lontane da una loro definizione precisa.
Non solo per il motivo dei pur importanti dati afferenti ai nominativi degli eletti e per la mancanza tuttora non comunicata del numero delle schede considerate nulle, o bianche o comunque giudicate inaccettabili.
Se l'opinione corrente, nella completa gamma degli orientamenti politici in campo, è convergente nel sicuro giudizio dei vincenti e perdenti, le differenze interpretative complessive (degli opinionisti e dei cittadini) divergono soltanto sul compiacimento o sul rammarico dell'esito degli scrutini.
Sentimenti che trovano comunque la loro sintesi giustificativa in una triade composta da due vittoriosi (M5s, con il 33%, la Lega con il 17% e più tre partiti di centro destra, con il 37%) e da uno sconfitto (il Pd, con il 18%).
Valori e percentuali che, come i lettori sanno, sono sottolineati ogni giorno dagli editoriali giornalistici e dalle dichiarazioni degli stessi esponenti politici rispettivi, che tuttavia omettono di considerare il "non voto" come fattore primario nell'interpretare accortamente l'orientamento politico e le variabili di vario tenore dell'elettorato tutto.
Che tale metodologia sia analoga a quelle applicate in tutte le precedenti consultazioni elettorali, comprese quelle amministrative, non ci esime dal rilevare che essa è dottrinalmente contraria ai fondamentali della scienza statistica.
Ma specialmente nella circostanza attuale, i numeri effettivamente emersi sono decisivi nelle valutazioni del voto e nella scelta di orientamenti politici conseguenti.
Il confronto corretto dei voti ottenuti dai due partiti vittoriosi (M5s, 33% e Lega,18%) e dallo sconfitto (Pd, 18%), dovrebbe calcolarsi con la totalità degli aventi diritto al voto (circa 46 milioni) e non con quella dei votanti effettivi (35 milioni, peraltro comprensivi dei voti bianchi e nulli).
Risultano infatti devianti le rispettive percentuali di rappresentatività politica ( calcolate appunto con i 35 milioni di votanti effettivi (e molto pubblicizzate) da quelle rispettive (e molto pubblicizzate) del 33% e del 18%.
Il M5s scenderebbe infatti a meno del 23%, la Lega (dal 17%) ed il Pd (dal 18%) a circa il 12%, cioè molto poco rappresentativi del peso specifico effettivo del corpo elettorale del Paese, che contempla ovviamente il totale dei votanti e dei non non votanti.
Operando tale metodo a tutto l'arco politico, ne emergerebbe il quadro desolante del tasso di crescente sfiducia verso i partiti, assumerebbe il realistico significato (per il Pd) di una crisi sociale complessiva, o quanto meno (per Lega e M56) il carattere effimero di una vittoria elettorale ma non politica.
Ne conseguirebbe dunque per i due vittoriosi un ripensamento radicale dei loro programmi e per il Pd una riconversione di uomini e di strategie che vada ben oltre il dilemma dell'opposizione o dell'accordo con uno dei due citati partiti vittoriosi.
Ma, soprattutto, gioverebbe, a tutti e tre i maggiori partiti, un ripensamento del cuore di questa crisi, cioè il nostro modo di essere nell'Europa e la necessità di apertura di un nuovo e documentato piano di revisione dei patti europei, sul piano economico, monetario e sul piano della politica estera.
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