Forse l'Italia è assurta a nazione troppo tardi, per potersi giovare di quella orgogliosa sovranità, che nei tre, quattro secoli che prima si sovrapposero, poi rapidamente superarono l'età del Rinascimento, fu invece il carattere distintivo dei paesi che fecero la storia europea.
Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra, Svezia, Austria furono le nazioni protagoniste di quella storia, il giudizio sulla quale è difficile compendiare, perché ne fa parte anche il colonialismo.
E' tuttavia certo che quelle nazioni, con il rafforzamento articolato dei rispettivi Stati, conferirono la complessiva indiscussa egemonia europea, sul piano mondiale, fino alla prima parte del secolo scorso.
Anche la Germania assurse quasi contemporaneamente a noi a Stato unitario, ma con una storia di omogeneità linguistica, di maturità religiosa e di compattezza civica da cui scaturirono i ben noti connotati economici e militari.
La nostra storia post unitaria, per fragilità sociale, per diversità di costumi e tradizioni, questione cattolica inclusa, è stata sempre caratterizzata da una politica estera fondamentalmente ispirata da interessi corporativi, talvolta faziosi ma giammai autenticamente nazionali.
Ne è derivato il capovolgimento frequente di scelte diplomatiche e di violazione di patti stipulati, come il rovesciamento della triplice alleanza (con Austria e Prussia), prima della guerra '15 - '18, o addirittura di alleanze militari, come nella seconda guerra mondiale.
Ora ci troviamo, quasi grottescamente, a sottoscrivere, fra pochissimi giorni, un accordo economico e politico con la Cina, di dimensioni geografiche e finanziarie potenzialmente incalcolabili - comprovato dalla sua stessa denominazione "La nuova via della Seta"- ma con il Governo italiano tutt'altro che unito al suo interno.
La Cina, rappresentata da Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare cinese, si trova forse ad un passo decisivo per il suo riconoscimento, dopo soli sessant'anni dalla sua rivoluzione, di massima potenza mondiale, seconda a nessuno.
Era scontato, dalla fase preliminare agli accordi formali, che la situazione avrebbe determinato una
manifestazione reiterata di incompatibilità e di riserve critiche, con gli Usa, con la Russia ed, a significarne la scarsa compattezza, con l'Unione Europea.
Come sempre, si è nutrito il disegno di poter risolvere le nostre incertezze con le tradizionali affabulazioni che non convincono alcuna cancelleria estera, né opinioni pubbliche nazionali ed internazionali, ma solo la superficialità di coloro che le concepiscono.
Nella durezza della competizione internazionale, questo accordo può diventare decisivo, ed è incredibile la distratta e casuale attenzione con cui a livello governativo e parlamentare è stato accompagnato.
Il nostro ultimo periodo è trascorso nel gran discettare della classe politica del decentramento dei poteri dello Stato, mentre sono anni che registriamo un processo di integrazione europea, con modalità prive di progettualità, e l'amputazione tacita di ogni decentramento federale di poteri, in capo agli Stati aderenti: il contrario cioè dei presupposti del processo unitario europeo.
E' finora silente anche l'opposizione parlamentare, quasi compiaciuta delle difficoltà del Governo, trovando anzi in esse la prospettiva di poterlo rapidamente sostituire.
Né opposizione né maggioranza sembrano consapevoli della stanchezza dell'elettorato, delusa da una integrazione europea basata su egemonie burocratiche, sul piano istituzionale ed economico.
Ora un accordo, grandioso nelle premesse, rischia di abortire, sia che venga effettivamente sottoscritto, sia che invece fallisca.
Ma indipendentemente dalle incapacità del Governo italiano, sarebbe stato certamente assai più confacente che l'Unione europea stessa si prendesse carico di temi di questa dimensioni.
Ed infine, non sarebbe stato infatti politicamente più significativo, per Zingaretti, inaugurare la sua segreteria con un giudizio critico ed articolato di questo possibile ingresso in Europa dell'economia cinese, anziché spendersi in valutazioni critiche della Tav, incomparabilmente meno importante?
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