Se le responsabilità politiche, nel permanente stato di crisi dell'economia del paese, sono molte e (istituzionalmente) primarie, non per questo debbono, né possono, sottacersi le responsabilità degli organi tecnici che al mondo del credito danno vita ed esecuzione concreta.
Cioè le banche, a favore delle quali il mondo politico, per tradizione, si fa carico di provvedere ricorrendo, per il cosiddetto interesse generale, alla fiscalizzazione generale ed evitare i maggiori danni del contagioso diffondersi della loro inevitabile insolvenza.
L'ultimo biennio, in particolare, l'elenco degli istituti di credito del nostro paese (Popolare Etruria, Carige, Carichieti e Cariferrara) che ha ulteriormente peggiorato la già tribolata serenità politica è stato particolarmente cospicuo e, strumentalmente o meno, ha per così dire imposto scelte urgenti e del tutto innovative, specie il "bail in", anche per l'intervento severo ed occhiuto delle autorità di Bruxelles.
Un elenco che contiene peraltro la più antica banca italiana, il celebre Monte dei Paschi di Siena, che registrò il suo principale, ma non unico, punto di crisi, in quell'incomprensibile acquisto di Anton Veneta, al prezzo di 9 miliardi, offerto da quel Banco Santander (olandese) che, pochi mesi prima, ne fu acquirente con l'esborso di una cifra di soli 6 miliardi.
A tal proposito, nulla ebbe ad osservare Bankitalia, governatore Mario Draghi, la cui vigilanza non seppe riscontrare come proprio il prezzo di quell'acquisizione compromise definitivamente i coefficienti essenziali della solidità patrimoniale della Banca senese.
Analoghe osservazioni valgano per tanti casi meno recenti, di piccole o grosse banche, come il Banco di Napoli e di Sicilia, nei quali, anche se l'opinione pubblica fu meno negativamente sensibilizzata grazie agli interventi, accuratamente dissimulati, di sutura ad onere pubblico ed effettuati per evitare il necessario ricorso a procedure concorsuali di carattere para fallimentare.
Non è infatti facile respingere l'argomento che le banche, specie se grandi, non possono fallire perché il danno che ne scaturirebbe sarebbe assai più grave del costo del suo salvataggio, a carico della fiscalità nazionale.
Anche all'estero è usuale questa vocazione ed il caso della Lehman Brothers (2008), ritenuta il fallimento scatenante della crisi mondiale dei crediti sub prime, ne è diventato un significativo simbolo: seppure a rovescio, per indicarne la sua auspicabile irripetibilità.
Ma la fondatezza del ragionamento non può non essere corredato da un parallelo concetto della scarsa consapevolezza del mondo del credito e di coloro che ne portano operativamente le responsabilità.
Lo stesso regime privatistico dell'assetto privatistico di Bankitalia, è una inconscia riprova di uno status privilegiato della categoria, con indiscutibili nocumenti nella conduzione gestionale della politica del credito e della moneta.
Ne traggono buon gioco i nostri partners europei, come si è potuto constatare nei recenti ed ancora pienamente attuali casi relativi alla Popolare di Vicenza ed alla già menzionata Veneto Banca, entrambe in fase (teorica) di ricapitalizzazione per le perdite derivanti da quei titoli derivati, che furono dissimulati raggiri a danno dei propri stessi clienti.
Purtroppo né gli auditing interni dei singoli Istituti, né la Consob né la Vigilanza della Banca d'Italia avevano saputo verificarne l'esistenza e le dimensioni: e di cui non vi è alcuno disposto a riconoscere la sua parte di responsabilità diretta.
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