In data 7 settembre, "La Stampa" di Torino ha fornito ai suoi lettori un quadro complessivo dei bilanci comunali di tutto il Paese, dal punto di vista specifico delle rispettive situazioni di tesoreria.
Un quadro allarmante che spinge la Corte dei Conti a classificare oltre cento comuni in dissesto ed altri 163 in pre-dissesto, cioè in procinto di accrescerne il numero, ivi compresi comuni come Roma, Napoli e Torino.
La notizia non rappresenta una novità, almeno nei confronti del cittadino mediamente informato delle cose comunali, in modo particolare dei capoluoghi di provincia, di regione e della stessa Capitale.
Siamo in effetti tutti consapevoli delle difficoltà crescenti che caratterizzano tutte le città, per il gravame crescente delle spese e per l'insufficienza delle entrate.
E' giocoforza aggiungere, a tale tutt'altro che incoraggiante panorama, la considerazione che lo stato debitorio degli Enti locali, - comprensivo dei bilanci delle società partecipate, formalmente autonome, ma riconducibili ai Comuni che ne sono proprietari - è contabilizzato distintamente e quindi al di fuori del Debito pubblico nazionale.
Considerato che i debiti degli Enti locali, da tempo, hanno superato l'ammontare di cento miliardi, il Debito pubblico nazionale (2.280.000 miliardi) deve essere conteggiato, al netto dei rapporti reciproci fra Stato ed Enti locali, cioè l'ammontare effettivo dei debiti pubblici a carico dei contribuenti (ed eventuale aggiunta di quello delle Regioni), deve essere conteggiato con un incremento certamente superiore al 5% .
Non basta: occorre riflettere sulle numerosissime società che svolgono servizi fondamentali per la vita comunale, nei trasporti o nella nettezza urbana ma che, a loro volta, si trovano in stato di imminente dissesto.
La loro sopravvivenza pone giuridicamente problemi di carattere sociale, non risolvibili mediante il ricorso alle procedure concorsuali previste per le imprese private.
E' il caso dell'Atac, azienda del trasporto pubblico di Roma, gravata da un debito superiore ad un miliardo e trecento milioni (per la quale è in corso la procedura di concordato preventivo) il cui ammontare non è chiaro se è conteggiato nel debito specifico del debito capitolino ufficiosamente dichiarato intorno ai 13 miliardi.
Il suo funzionamento, è intuibile, dovrà comunque essere garantito, salvo imprevedibili reazioni sociali e politiche, incompatibili in una città che, in tempi recenti, ha voluto espressamente (o con inconscia ironia) fregiarsi, forse unica al mondo, del titolo di Roma Capitale.
Ma non basta: il futuro delle realtà urbane nasconde un elemento che all'opinione tutta viene completamente taciuto e che nasce dalle fragili norme della contabilità pubblica.
Come è noto, per la diligenza del buon padre di famiglia che è un punto centrale di riferimento del codice civile, ormai secolarmente, l'amministrazione delle cose che assicurano la vita e l'attività delle persone - la casa, la fabbrica, le macchine, i mezzi di locomozione - influenza in modo determinante la pubblica amministrazione, con il ricorso alla realtà, contabilmente indifferibile, di tutti beni usurabili nel tempo, della voce "ammortamento" (nel significato etimologico di "mandare a morte").
Criterio invece dimenticato invece nell'amministrazione pubblica, nella quale il prevalere della contabilità di cassa invece che quella di competenza, le strade, gli edifici pubblici, i mezzi pubblici, non trovano o comunque non applicano quel fondamentale atto amministrativo rappresentato appunto dall'ammortamento e dal fondo ammortamento.
Le cui conseguenze rendono superfluo il constatare lo stato indecoroso delle strade e dei marciapiedi che caratterizza perfino i millenari luoghi storici di una città come Roma (capitale).
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