giovedì 9 novembre 2017

L'errore originale della conversione lira - euro e le perduranti conseguenze

L'annuncio della nascita dell'euro, fu dato formalmente a Bruxelles, la mezzanotte di sabato 2 maggio 1998, dopo un vertice molto contrastato dei capi di Stato europei.

Il contrasto non riguardò tuttavia le condizioni relative alla moneta unica che, nelle sue connotazioni  essenziali, era stata oggetto di precedenti accordi bilaterali che ebbero come interlocutore principale il Governo tedesco.

I giornali del 3 maggio riferirono infatti, a caratteri cubitali, di una grande lite e di un allucinante braccio di ferro, affrontati solo per stabilire l'assegnazione della guida della istituenda Banca Centrale Europea (Bce).

Un compromesso finale assegnò all'olandese Wim Duisenberg, assistito da un vice presidente francese, l'incarico di presiedere la Bce, con l'assistenza di un vice presidente francese, fino alla conclusione della circolazione delle monete nazionali, stabilita alla fine del 2002.

Immediatamente dopo tale data, lo stabilì quel vertice di Bruxelles, sarebbe subentrato come Presidente della Bce, un esponente francese, Claude Trichet.

La notizia essenziale che i cittadini italiani acquisirono fu rappresentata dalla conversione della lira con il marco, determinata secondo un rapporto di valori di 990 lire per 1 marco.

L'inesistenza di informazioni ufficiali sul meccanismo giustificativo di conversione adottata, generò nella pubblica opinione più di un interrogativo  che, nel prosieguo del tempo, per esperienza ed in occasione di pubblici dibattiti, ha generalmente ricevuto una sola spiegazione: esso fu una scelta politica.

Analogamente, valutammo. con scetticismo sempre unito a rispetto, le assicurazioni pubbliche, anche di esponenti di governo dell'epoca, che la conversione finale di tutte le monete aderenti, sia quelle iniziali sia quelle che aderirono successivamente, si era attenuta a criteri di media ponderata dei valori reciproci delle monete stesse.

Ma torniamo per ora al valore del primo passaggio adottato per la conversione della lira la fissazione di 990 lire contro un marco.

La gravità dell'errore commesso di quella conversione scaturisce dalle stesse espressioni di Romano Prodi (al netto di tutte le argomentazioni politiche di cornice) e fedelmente riportate a pag. 93 di "Missione incompiuta" (di Romano Prodi. Intervista su politica e democrazia. A cura di Marco Damilano. Editori Laterza, aprile 2015). Eccole :

" ...Il nostro primo incontro ufficiale (con Kohl, n.d.r.) andò molto bene, ma accompagnandomi alla macchina, mi sorrise e poi, con l'aria di gattone, mi congedò dicendo <Bell'incontro, per carità. Ma chi verrà la prossima volta?> Rimasi gelato. Ma la fiducia reciproca divenne così forte che fissammo il rapporto definitivo fra il marco e la lira per entrare nell'euro con una lunga telefonata da casa mia al suo portatile. Una conversazione degna di essere ricordata."

Marco Damilano: "Racconti".

Romano Prodi: "Io partii dalla richiesta mia e di Ciampi di mille lire per marco, in modo da favorire il nostro export. Mi disse che il suo governo intendeva fermarsi ad un rapporto di cambio molto più basso, intorno alle novecentocinquanta lire. Una lunga discussione e alla fine una conclusione <A mille lire non posso arrivare, facciamo novecentonovanta.>  Per me fu un vero momento di gioia. Kohl difendeva l'interesse tedesco con forza, ma si rendeva conto che per difenderlo nel lungo periodo era necessario combinarlo con un minimo di solidarietà...".

Trascurando altre espressioni di europeismo (tutte leggibili a pag. 94 di "Missione Compiuta"), dalle parole riferite di Romano Prodi, deduciamo alcune considerazioni sulla cui fondatezza chiediamo a Damilano, intervistatore e curatore del libro, la cortesia di esprimersi.

Emerge dalle dichiarazioni di Prodi (in accordo con Ciampi) che il presupposto della difesa del nostro export doveva essere garantito da un rapporto di cambio fra lira ed euro il più possibile elevato (mille lire contro un marco).

Ma la moneta unica rappresentava esattamente la fine di ogni pratica di svalutazione competitiva e il suo cambio elevato si traduceva (come in effetti è avvenuto, a parte il differenziale di 10 lire ) in una svalutazione generalizzata del potere d'acquisto della moneta italiana.

Le ripercussioni, sul nostro mercato interno, sono state incalcolabili ed hanno e tuttora continuano ad influenzare, inevitabilmente e negativamente, il valore complessivo del patrimonio commerciale, effettivo o potenziale, nella sua interezza.

Ma soprattutto quel valore di 990 lire per 1 marco, ha significato una immediata svalutazione del potere d'acquisto di tutti i titolari (presenti e futuri) di redditi in lire e della svalutazione proporzionale di ogni bene commerciale, del paese tutto. 

E si badi bene, per un valore che non si identifica tra 950 lire contro 1 marco (come diceva Kohl) ma di molto superiore essendo, quel 990, l'espressione di una svalutazione molto superiore al valore corrente della lira nel nostro paese, sicuramente diverso (e nettamente più favorevole per la lira) all'ipotizzato 950.

Quei valori erano infatti solo finalizzati ad operazioni, seppur importanti, di esportazione, ma nemmeno lontanamente comparabili con i valori monetari correnti del mercato interno del Paese.

Adottare i valori di cambio dell'export come unico coefficiente di una fusione monetaria, senza tener cioè conto del potere d'acquisto effettivo delle singole monete è un evidente errore dottrinale.

(Vedasi eventualmente la finestra del presente blog a ciò espressamente dedicata).   

Il trasferimento della sovranità monetaria a Francoforte, peraltro inevitabile per l'unità monetaria, ha comportato e comporta tuttora una perdita (o un aumento) di potere d'acquisto della lira, del marco, del franco francese e di tutto il paniere delle monete dell'euro zona, in conseguenza del rapporto fissato (ultra nocivo, per la lira, e oltremodo vantaggioso, per il marco) nelle rispettive conversioni.

Possiamo dunque affermare la conversione della lira configura un esempio di un patto leonino a carattere preterintenzionale, di cui il nostro paese ha pagato e prosegue a pagare con conseguente aggravamento di tutte le criticità della nostra economia, debito pubblico "in primis", che quotidianamente, soprattutto da Bruxelles, ci vengono ricordate.

Per concludere, ci sembra saggio rilevare che la rinuncia a prendere atto di una diagnosi siffatta ed assumere provvedimenti politici adeguati, quali che siano, è una viltà istituzionale dello Stato medesimo, da parte di tutti coloro cui tali responsabilità competono.

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