martedì 10 luglio 2018

Pd, ormai fra mito di Sisifo ed altri modelli del pensiero e della fantasia poetica

Mille delegati invitati a Roma, per approvare il percorso della ripresa del partito dopo oltre 4 mesi dal suffragio politico nazionale.

In realtà chiamati a prendere atto della promozione del reggente Martina a segretario a tempo, ma  di fatto a registrare il punto di vista di Matteo Renzi, con sorpresa primo assoluto dello scarno elenco degli interventi al dibattito e (non signorilmente) proteso a dirottare verso altri le responsabilità della sconfitta.

Ne è uscito un quadro deludente per i militanti e gli elettori del partito democratico, derubricati a semplici spettatori per la evidente mancanza di rispetto che la nomenclatura del Partito riserva non solo a loro ma all'opinione pubblica tutta.

Il Partito democratico, forse ancor più dei rovesci politici subiti, come erede diretto delle principali esperienze politiche del Paese, dall'Unità d'Italia ad oggi, proprio per il suo recedere da ogni esame autocritico e per l'irresolutezza del suo comportamento, marca una crisi storicamente mortificante.

La sua classe dirigente appare incapace di una analisi interpretativa che lasci intravvedere le criticità fondamentali del paese, del cui patrimonio ideologico, politico e amministrativo, è comunque di gran lunga il principale discendente.

Il Pd si è lasciato elettoralmente superare da formazioni politiche non certo portatrici di idealità politiche e sociali innovative, ma comunque emerse elettoralmente prevalenti, precisamente per la sua crescente incapacità comunicativa: conseguenza inevitabile di incapacità di lettura della realtà dei fatti e dei comportamenti di coloro che li determinano.

Il messaggio del 4 marzo è stato infatti soprattutto infatti il disconoscimento delle tradizionali correnti di pensiero politico del paese - quelle socialiste e quella cattoliche - per ormai smarrita credibilità.

Ciò è avvenuto col voto impulsivo a favore di forze nuove e tutt'altro che collaudate, ma finalizzato alla dissacrazione di quelle rappresentanze politiche che, insieme o alternativamente, avevano governato per circa settant'anni. 

Eppure il lungo periodo di crisi che logora il Paese, è il risultato di due scelte, meglio definibili come gravissime e perpetrate omissioni , di cui sono tuttora (colpevolmente) inconsapevoli le rappresentanze politiche in campo, sia del Pd ed altre opposizioni, sia delle nuove maggioranze. 

Alludiamo alle due deficienze fondamentali la prima delle quali riguarda il fallimento di un preciso disegno politico emerso dopo la seconda guerra mondiale, rappresentato dal riconoscimento di porre definitivamente fine alle guerre fra i paesi dell'antico continente, con il progetto dell'Unione europea..

 Una unità tuttavia perseguita, inspiegabilmente, deprivandola del presupposto fondamentale per la sua riuscita, cioè una organo sovrano su base istituzionale federalista, quale chiaramente risultava dell'iniziale denominazione di Stati Uniti d'Europa.

La seconda deficienza, di ordine aritmetico e dottrinale, riguarda l'errore commesso nell'accettazione di un metodo di conversione monetaria che ha comportato, e tuttora comporta, incalcolabili espropriazioni di potere d'acquisto dell'economia italiana e della massa dei suoi contribuenti.

L'avere infatti applicato, nella conversione per la moneta unica, un rapporto di valore delle singole monete, sulla esclusiva base dei listini di borsa dell'import export fra Italia e Germania, ha caratterizzato il nostro sviluppo economico come un continuo e dispendiosissimo arrancare.

Come è dimostrato dall'aumento costante del nostro Debito Pubblico e dalle dismissioni successive di nostre illustri presenze nel consesso economico mondiale.

Era scritto nelle stelle che l'Italia, paese di Machiavelli, dovesse storicamente conformarsi nel tempo sempre di più al magistero di Guicciardini (ideologo della funzione politica della ricerca esclusiva del "conveniente") fino all'attuale disgregarsi nella fatica perenne del mito di Sisifo?

Oppure che addirittura ormai i suoi vertici massimi tendano a sopravvivere solo accusandosi reciprocamente delle colpe dei patrii disastri.

Fino a replicare, forse, le divertenti vicende del celebre poema eroicomico "La secchia rapita" (Alessandro Tassoni, 1565-1635), vile oggetto per il quale i comuni medievali di Bologna e Modena, per il servilismo dei rispettivi reggitori, entrarono fantasticamente in bellico conflitto?       

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