sabato 8 luglio 2017

Verità contabili, realismo ed amarezza del contributo straniero nella nostra economia

Ciò che, in ordine alla convenienza del nostro sistema previdenziale di ricorrere al lavoro degli stranieri residenti nel nostro paese, viene frequentemente sottolineato da Tito Boeri, presidente dell'Inps, contiene indubbie verità contabili ma non altrettanto accettabili se non come fatto di necessità. .

Tito Boeri - diciamo concisamente - contabilizza in svariati miliardi l'apporto contributivo del lavoro straniero alle nostre casse pensionistiche ed apoditticamente ne deduce la sua essenzialità ai fini del nostro equilibrio finanziario previdenziale complessivo.

Considerata la fondatezza dei dati contabili di cui dispone, il presidente Boeri ha sicuramente validi motivi per le sue affermazioni.

E' invece meno persuasivo il suo dedurre, da questi dati, una sorta di indispensabile fabbisogno che solo la presenza di lavoratori stranieri può assicurare.

L'obiezione è infatti la seguente: non potrebbe tale fabbisogno essere conseguito da lavoratori italiani, specie in considerazione del grado di disoccupazione della nostra manodopera, valutato fra i peggiori, nel quadro europeo?

Se la risposta presumibile è negativa, ne consegue una constatazione molto amara, identificabile, genericamente, in una insufficiente attitudine del lavoratore italiano, almeno relativamente al compimento di determinate ma numerose attività.

Lavori che, per loro caratteristiche igieniche (badare ai vecchi), psicologiche (alta disponibilità di pazienza, per l'assistenza agli ammalati), o di particolare onerosità e rischiosità fisica (trasporto manuale di materiali e merce) che lavoratori e lavoratrici nostrani tenderebbero a rifiutare, almeno nella fase iniziale della loro esperienza lavorativa.

E che anche in seguito, l'avanzare dell'età del lavoratore, rende progressivamente meno facile, o addirittura impossibile, affrontare fisicamente e psicologicamente.  
  
Se tali sono le considerazioni del presidente Boeri, sarebbe legittimo dedurre che il lavoratore italiano, sia inconsciamente dominato da una sua convinzione, specie all'inizio della sua carriera lavorativa, tanto umanamente comprensibile ma altrettanto psicologicamente vulnerabile.

La convinzione largamente diffusa nelle nuove generazioni di meritare l'esonero dai primi e più bassi gradi della gerarchia della scala dei lavori, e di sentirsi vocate a scelte preferenziali che solo in pochi ottengono, specialmente con il favore di appoggi della rispettiva provenienza familiare e delle relazioni sociali di cui può fruire.

Sarebbe legittimo pensare che il periodo storico pur breve di nostra prosperità economica, ha metabolizzato suoi attrattivi, ma illusori, privilegi, in realtà solo ipotetici ed in gran parte inconsistenti.

Il tutto nel mezzo di un periodo di grandi mutamenti, tuttora in pieno svolgimento, provocati dal progresso di digitalizzazione dell'apparato organizzativo di vasti settori produttivi e burocratici che, fatalmente, determina una crescente obsolescenza di numerose categorie professionali.

Un processo che si accompagna, con l'affievolimento delle appartenenze nazionali e con la perdita parallela di notevoli porzioni di sovranità nell'ambito di una Unione europea costruita al di fuori di ogni presupposto federalista.

Ecco perché, nel compiacimento del contributo straniero al nostro potere d'acquisto, non possiamo non chiederci se non sia ravvisabile in esso un sintomo di lento ma costante nostro retrocedere in paese di servizio.

E comunque sempre più distante dal significato del messaggio europeista di Ventotene.

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