Il quadro articolato delle riserve auree di Bankitalia, variamente depositate nei forzieri di Bankitalia per quasi la metà del suo valore o, fiduciariamente, negli Usa, in Svizzera e nel Regno Unito -illustrato da "La Stampa - di lunedì scorso, ha avuto una vastissima eco mediatica nei giorni successivi.
Quale sia stato l'intento, non direttamente riconducibile al quotidiano torinese, che con benemerenza ha diffuso la cognizione di tali riserve auree, è difficile stabilire.
Se lo scopo stava nell'identificare in esse una risorsa addizionale per far fronte allo scatto automatico dell'Iva, per i prevedibili vuoti di contabili nel Bilancio pubblico, il risultato è ampiamente mancato.
Legittimare, nell'immaginario collettivo, quel notevole peculio aureo (novanta miliardi di euro) come fruibile risorsa, è una ipotesi già naufragata.
E' emerso già nel precedente nostro post del 11 febbraio, come tale ipotesi sia inibita preliminarmente dal parere della Bce (Banca Centrale Europea) secondo cui, con logica zoppicante, la vendita, parziale o totale, dei lingotti pregiudicherebbe l'indipendenza di Bankitalia stessa.
Ciò premesso, se non altro come ipotesi di scuola, in materia tributaria, sia lecito proporre una seconda ipotesi operativa, finalizzata non solo a precludere lo scatto dell'Iva, ma addirittura risolutiva per il netto miglioramento del nostro Debito Pubblico.
E' infatti frequente, in ambito europeo, il richiamo al Debito Pubblico italiano, di cui si sottolinea, talvolta ruvidamente, l'elevata riconosciuta rischiosità, fino a sottolinearla come causa possibile di criticità per la moneta unica e, comunque, di pregiudicarne l'equilibrio complessivo.
La risposta data usualmente a tali valutazioni, sta nell'invito a comparare il Debito Pubblico con lo speculare e floridissimo quadro del risparmio privato italiano.
Secondo le stime pubbliche più ottimistiche, anche molto recenti, il risparmio privato raggiunge un ammontare che è quasi quattro volte quello del Debito Pubblico, ormai ufficialmente attorno ai 2.300 miliardi di euro.
Con il doveroso richiamo, davanti a cifre di quell'entità, dell'esigenza di stabilire parallelamente l'ammontare del debito privato (e precisando che la natura del risparmio deve intendersi in moneta contante e titoli finanziari a ravvicinata scadenza), è quasi ovvio dedurre un possibile e naturale itinerario.
Si può infatti suggerire il ricorso ad un prestito (non quindi ad un prelievo) forzoso ad un attraente tasso di interesse, come l'1% (oggi il contante in deposito è praticamente ad interesse zero), con scadenza di restituzione fra i quindici ed i venticinque anni e rappresentato da titoli negoziabili.
Il Governo, qualsiasi Governo, potrebbe realizzare un dimezzamento o comunque un rientro del Debito Pubblico entro i coefficienti di Maastricht (non oltre il 60% del Prodotto interno lordo) e naturalmente un immediato e larghissimo margine per disinnescare lo scatto dell'Iva.
Tale manovra,oltre a tacitare la non elegante vocazione della burocrazia europea - sempre protesa al quotidiano lamento sull'italico spropositato indebitamento - sarebbe l'efficace occasione di ribadire come la conversione della moneta unica, giusta in linea di principio, sia stata rovinosamente confezionata.
Cioè in modo incompatibile con la dottrina economica, la contabilità e l'aritmetica, e fomite permanente della crisi politica finale dell'unità europea.
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