lunedì 1 gennaio 2018

Il non edificante mutismo di tanti responsabili della politica e dell'economia

Ecco un suggerimento, lietamente desunto da editoriale Corsera del 30 dicembre, a firma Ferruccio De Bortoli.

Lo rivolgiamo ai non pochi elettori tuttora incerti sulla preferenza da assegnare ai partiti ed ai candidati alle elezioni politiche generali del 4 marzo.

Selezionate, vi prego, fra i candidati e i relativi programmi per verificare se alcuni fra essi sono in grado di proporre, al Governo ed alla maggioranza che scaturiranno dall'esito elettorale, le modalità di applicazione della direttiva europea del 2012, firmata dall'Italia (Governo Monti), con cui veniva approvato il Fiscal Compact ed il successivo suo riconoscimento come norma costituzionale.

In tale direttiva, ribadita ufficialmente (nel silenzio del nostro Governo) il 6 dicembre scorso dal Presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, era sancito lo specifico impegno, per ogni paese dell'euro zona, a cinque anni data, di versare per venti anni all'Europa la quota minima del 5% sulla parte di debito pubblico eccedente il 60% del rispettivo Pil (patti di Maastricht).

E' a tutti noto che il debito pubblico italiano è da tempo, lo era anzi già al momento stesso della sua adesione all'euro, in un rapporto percentuale largamente (anzi, molto largamente) al di sopra del rapporto percentuale del 60% sopra menzionato.

Allora prevalse l'ottimismo del tempo (1998) che faceva sorridere gli economisti dello sviluppo continuo, irridenti contro i cauti ed i formalisti (pochi e timidi) che sottolineavano tale rilevante irregolarità.

Ma tant'è, l'Europa ci accolse lo stesso, troppo poco conveniente doveva apparire la mancata ammissione di un paese come il nostro, per la sua determinante presenza in un'area primaria di crisi, quale il Mediterraneo, e per l'importanza produttiva del suo settore manifatturiero.

Il superamento di tale condizione poteva pure risultare comprensibile se la violazione di tale formalità non fosse poi stata incredibilmente esaltata da un conversione monetaria (oltre ad altri  criteri negoziali sommamente arbitrari) basata sulla svalutazione della lira e sulla conseguente espropriazione del nostro potere d'acquisto.

I disastrosi effetti, tuttora permanenti e di ammontare incalcolabile, derivarono paradossalmente  da una distrazione concettuale di Romano Prodi, che nessuno seppe tempestivamente correggere e le cui tracce sono ben visibili nel libro dello stesso Prodi: "Missione Incompiuta"  (pagg. 94 - 95, editori Laterza, a cura di Marco Damilano, 2015)

Ora, per offrire, a titolo di esempio, una ultima conseguenza di tale errore, insieme concettuale ed aritmetico, possiamo evidenziarla dal calcolo del rapporto attuale del debito pubblico (2.280 miliardi) e Pil (1.700 miliardi?) e poi da tutta la parte eccedente il 60% (1.020 miliardi).

Emerge, come primo imponibile, la somma di 1.260 miliardi (2.280 miliardi - 1.020 miliardi) da cui deriverebbe un primo versamento di 63 miliardi (5% di tale importo), e parimenti con la ripetizione dello stesso meccanismo di calcolo, per ogni anno successivo fino al 2.037 compreso.

Cosa può dire ogni candidato elettorale, ma soprattutto come possono argomentare gli esponenti più rappresentativi di ogni partito, (oltre i vertici dell'economia nazionale) al riguardo?

Nessuno si è mai accorto della micidiale concatenazione di eventi che discendono dal peccato originale della iniqua e leonina conversione della lira, poi aggravata dal Fiscal Compact, dalla direttiva del 2012  ed infine dalle perfidie del "bail in" e dei N:P:L: (not performing loans) ?

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