Da vario tempo, almeno da quando ha ricevuto la nomina a presidente della Bce, Mario Draghi è risultato il cittadino italiano che ha ricevuto, come somma algebrica, quasi esclusivamente elogi e riconoscimenti, in tutte le circostanze della vita nazionale che, direttamente o indirettamente, attenevano alla sua persona.
Ivi compresa la possibile candidatura alla presidenza della repubblica, da lui stessa esclusa, ma soprattutto nel quasi automatico e deferente riportarsi, direttamente o meno, al suo parere, in tutti i cruciali passaggi delle nostre travagliate vicende economiche e finanziarie.
E si capisce perché: la Banca Centrale Europea assume ormai, dopo Maastricht ed il Fiscal Compact, la funzione sovrana della politica monetaria dell'Unione Europea.
In questi giorni l'imprenditoria italiana ed europea attende, dalla Bce, misure che quanto meno come possibile leva finanziaria, immetteranno un flusso in entrata di alcune centinaia di miliardi, nella fattispecie -pare- di “quantitative easing”, curiosa espressione del lessico salottiero del mondo diplomatico.
Il cui significato (letteralmente: quantitativo facilitante) sta appunto a definire il quantitativo di finanziamento congruo ad una determinata esigenza.
Non c'è che auspicare che tale evento possa concretarsi al più presto: sia nella scelta di canali di distribuzione del denaro meno privilegiati del consueto, sia nella destinazione ai beneficiari più meritevoli.
Ma non si nasconda il pessimismo di cui soffriamo sulla ripresa duratura dell'economia europea e per quella italiana in particolare, convinti come siamo che quest'ultima sia condannata a soffrire per il colossale errore originale commesso nella scelta del meccanismo di conversione delle lira in euro (fine dicembre 1998).
E la domanda che vorremmo rivolgere a Mario Draghi è appunto quella: concorda che qualcosa di molto grave, in quella scelta, non funzionò?
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