giovedì 7 aprile 2016

I Panama Papers e ciò che ci insegnano

Una mole di documenti di milioni di pagine, preparati da una numerosa equipe di giornalisti di inchiesta dell' Icij (International Consortium of investigative journalists) dopo un riservatissimo lavoro di oltre un anno.

Un elenco sterminato di nomi e di cifre di soldi che, da tutto il mondo, che sono formalmente transitati presso lo studio legale panamense Mossack Fonseca, con destinazione nei (e provenienza dai) paradisi fiscali di tutto il mondo.

Nomi di celebrità che per sfuggire il fisco o semplicemente per sottrarli a mire di cupidigia altrui, si sono costituiti, o direttamente o con teste di legno, titolari clandestini di operazioni bancarie off shore.

Accanto a celebrità dello sport, star teatrali, cinematografiche e televisive, artisti, imprenditori, spiccano soprattutto uomini politici di varia nazionalità ed orientamento politico, ben noti alla quotidianità giornalistica dell'informazione mondiale.

L'ucraino Poroshenko, il cinese Xi Jmping, l'inglese padre di David Cameron (il cui impegno governativo contro i paradisi fiscali è ben noto), il russo Vladimir Putin, il premier islandese Sigmundur Gunnlugsson (subito dimessosi) .....  

La prima conseguenza è tanto grave quanto evidente, cioè la caduta ulteriore di credibilità complessiva della politica, o meglio della classe che la rappresenta.  

Su questi uomini di grande potere si appunta lo sbigottito stupore di chi ci vede una internazionale della finanza, o meglio della attrazione unificatrice di una sacralità rovesciata.

"Auri sacra fames" cantava Virgilio, dando al termine "sacra" il duplice ed opposto significato di" sacra" ed insieme di "esecranda", conferendo all'oro (la moneta regina dei tempi antichi) il rango di una religione rovesciata ed opposta alle divinità dell'Olimpo, ma di altrettanto irresistibile capacità attrattiva.  

Oggi, tale fascino seduttivo si mescola nell'oceano immenso dell'ambiguità di tutti i messaggi politici, a tutte le latitudini geografiche ed ideologiche, anche fra loro abissalmente contrapposte.  

E sottolinea forse una capacità attrattiva ed inconscia non della ricchezza in sé, ma della continuità del potere che essa prefigura nel travaglio incessante di ogni detentore del potere politico, e specificamente dell'incubo di perderlo.

Una sorta di garanzia di continuità egemonica, o quanto meno di assicurata indipendenza personale, estranea alla vicenda politica ed alle sue contese, fisicamente rappresentata appunto dal denaro.

Ma l'amara deduzione che siamo obbligati a trarne, sta nella conseguente fragilità del potere politico, per la fatale dissociazione, nella psicologia del potente, di una convivenza impossibile: la ricerca del bene pubblico e l'ansia della sopravvivenza personale, incarnata nella ricchezza lontana e illusoriamente imprendibile se non da sé stessi.

Che peraltro raramente ne fruiranno, e sempre nella tristezza.

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