lunedì 1 giugno 2015

Inflazione, deflazione e loro strumentale interpretazione

Non si comprende a quali arzigogolati meccanismi di pensiero si ispiri il tentativo di accreditare una appena percettibile crescita del tasso d'inflazione quale sintomo dimostrativo dell'uscita irreversibile dalla fase di recessione.

Valga tale considerazione non solo per i livelli minimi di aumento inflazionistico; anche se si manifestassero incrementi per numeri interi (cioè superiori al 10%), rimarrebbero infatti margini molto incerti come prova di dimostrabile accresciuta e generale propensione ad acquistare.

A comprova di ciò, non è superfluo ricordare l'uso del neologismo "stagflazione" (fusione di stagnazione + inflazione) con cui venivano designati non remoti periodi critici del nostro andamento economico.

Il crescere del livello medio generale dei prezzi può benissimo infatti sussistere anche in costanza di stato economico depressivo e potrebbe anzi essere compatibile con il suo stesso aggravamento.

Un indice generale dei prezzi, ammesso che possa essere calcolato in modo scientificamente oggettivo, non è comunque, da sé solo, suscettibile di deduzioni o valutazioni di ordine generale:
aumento o diminuzione della produzione, crescita o decrescita dei livelli occupativi, diffusione o concentrazione dei redditi, saldo attivo/passivo dell'import/export...

E' evidente che a tal fine l'unico percorso obbligato sta nel procedere, con molta oculatezza,
ad una adeguata disaggregazione dei dati.

Come si deve quindi interpretare il compiacimento ufficiale di questi giorni nel registrare indici di incipiente passaggio dalla deflazione al suo opposto?

La spiegazione si trova ormai in una specificità di questo momento storico, di cui forse l'Italia, per dimensioni economiche, per livello demografico ma soprattutto per l'iniquità della conversione della lira con l'euro, per la sua posizione geografica, sta pagando e, nel persistere del suo silenzio ufficiale, continuerà a pagare, scivolando progressivamente verso la subalternità.

Ora, forse con astuta connivenza dei partners europei, l'inflazione, nobilitata come contrapposto della deflazione, può rappresentare una via d'uscita (già frequentemente sperimentata) per uscire dalle secche del debito pubblico e dall'attrazione dei vantaggi della svalutazione competitiva.

Ma appunto una via illusoria, in forza di una parallela serie di vantaggi per gli altri membri dell'euro zona (Germania in primis) e sopratutto perché il controllo della politica monetaria non appartiene a noi né agli Stati ma al sovra organismo della Banca Centrale di Francoforte.  

E qui, e negli Stati che ne hanno il potere di effettiva gestione, è la vera chiave della piramide delle gerarchie che oggi danno le linee della politica economica europea: come scaturisce dal provvedimento esecutivo in corso che va sotto il nome di Quantitative easing.

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