Economia globale ed anarchia monetaria, questo è il dilemma che investe il futuro prossimo venturo degli otto miliardi di inquilini del Pianeta terra.
Tutti i nostri simili, ormai fatalmente legati da comune destino per quanto concerne risorse alimentari, equilibri ecologici e conflitti sociali, sono divisi dalle rispettive monete.
Monete, il cui valore di scambio è basato esclusivamente su una volatile fiducia che, minuto per minuto, i mercati finanziari sono disposti a riconoscere a ciascuna di esse.
Poche monete, in verità, il cui "dominus" rispettivo risiede a New York (dollaro), Pechino (yuan), Francoforte (euro), Londra (sterlina), Mosca (rublo), Tokio (nikkei).
Ivi si elabora il tasso di sconto (per determinare il costo del denaro alle banche), il coefficiente di cambio con la altre monete (specie per l'import/export) , l'emissione di nuova moneta (con aumento dell'inflazione) o l'offerta di titoli del Debito pubblico (per arrestare temporaneamente l'inflazione).
La ristrettezza del loro numero, per la rilevante forza monetaria rispettiva, è inversamente proporzionale al riverbero che ogni loro oscillazione produce nei rapporti reciproci di scambio.
Il loro confronto comparativo, si basa su una miriade di valutazioni che scorrono dalle disponibilità di materie prime (energetiche, in primis), auree (storiche, ma tuttora essenziali), industriali, agricole, e da altre attrazioni (naturali, turistiche e culturali) dei paesi di appartenenza.
Psicologicamente tuttavia, influiscono in queste misure, elementi non economici, ma importanti diplomaticamente, come il livello di rispettiva potenza militare, l'omogeneità delle singole aree monetarie, e soprattutto il grado di benessere delle popolazioni e quello della loro coesione sociale.
Ma la concentrazione costante di attenzione, diremmo istantanea, è riservato dalla quantificazione
delle rispettive fluttuazioni monetarie (con il relativo tasso inflazionistico e deflazionistico) e la loro proiezione a breve, medio e lungo periodo.
Il tutto nella consapevolezza di una gigantesca incognita, precisamente rappresentata dalla massa dei cosiddetti derivati, la cui quantificazione, generalmente valutata ad un valore pari a dieci volte quello dei titoli di credito di standard tradizionale, è completamente sottratta al potere dei governi e gestita autonomamente dalle banche di tutto il mondo.
E' proprio quest'ultimo il punto dolente sul quale, nei confronti delle politiche monetarie, risultano omissive le attenzioni delle comunità (specificamente negli ambiti istituzionali, come sindacati e partiti), generalmente distratte rispetto alle menzionate misurazioni, i cui effetti, possono assumere vere e proprie trasformazioni degli equilibri sociali.
Un quadro complesso che rende oltremodo difficoltoso affrontare l'alternativa della stampa di carta moneta (con effetti inflazionistici) o ricorrere al Debito pubblico (con effetti temporaneamente deflazionistici), per quegli Stati che sono privi di sovranità monetaria.
Come appunto accade in quelle rarissime ipotesi, storicamente parlando, rappresentate dal formarsi di aree politiche di diversa origine, con fusione delle rispettive monete ed il calcolo medio ponderato relativo delle vecchie monete: come è stato, e continua ad essere, disastrosamente, il caso dell'euro, sicuramente per l'Italia e per la lira, sua moneta storica.
Se l'intendimento di Matteo Renzi di contrastare lo strapotere di Bruxelles, scaturisce da sua autentica volontà, il tema della denuncia del sopruso leonino consumato nel 1998 a danno della lira, ha il massimo di inoppugnabile fondatezza.
La circostanza che vede il primo ministro inglese David Cameron puntare il suo destino politico sull'alternativa di una revisione dei patti europei per entrare nell'euro o per uscire definitivamente dall'Unione europea (con decisione finale rimessa al referendum del popolo britannico), non potrebbe che favorire diplomaticamente il clima di tale sacrosanta iniziativa.
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