martedì 15 dicembre 2015

Il "bail in", nuovo punto di svolta della storia monetaria europea

Mozione parlamentare di sfiducia, per conflitto di interessi, contro il ministro Maria Elena Boschi, e con immediata (casuale) successione, apertura di indagini contro due vertici della banca Etruria, per analoga motivazione, da parte della Procura di Arezzo.

Si pongono tutti i presupposti mediatici che fanno assurgere la vicenda del salvataggio di quattro banche dissestate (vedansi post del 23,25 novembre e 3, 6 dicembre) a motivo discriminante della politica monetaria ed economica italiana.

Se i comportamenti, oggetto di indagine, trovassero conferma, sia in sede parlamentare come giudiziaria, la credibilità del sistema bancario italiano potrebbe subire un forse definitivo colpo di grazia.

Il Governo rassicura che questa ipotesi verrà contraddetta, ed ogni auspicio di tutte le persone per bene è sintonizzato su questa prospettiva.

Ma al di là di ogni ipotesi, è di grande rilievo il significato dell'avvenuta introduzione (addirittura anticipata) della procedura cosiddetta del "bail in" (la cui entrata in vigore era stabilita con decorrenza 2016).

Come è noto, la procedura del "bail in", (letteralmente: garanzie all'interno), prevede il diritto di coinvolgere, nella ristrutturazione delle aziende di credito in stato d'insolvenza, oltre naturalmente al capitale azionario, anche clienti correntisti e obbligazionisti, categorie cui non sono cioè fisiologicamente addebitabili gli errori commessi nella conduzione della gestione.

Il tutto con presenza eventuale di una Bad Bank dove vengono collocate le partite in sofferenza, prevalentemente rappresentate da crediti di difficile realizzo.

Nella vicenda delle quattro banche, il "bail in" si è accompagnato, contraddittoriamente, alle norme della liquidazione coatta amministrativa, procedura concorsuale di vecchia data, relativa ad aziende del credito e delle assicurazioni, in dissesto, finalizzata essenzialmente alla loro rapida messa in liquidazione.

Tutto ciò premesso, con l'introduzione del "bail in" si è compiuto un passo ulteriore di una linea di tendenza iniziata nel 1998.

Quando cioè fu decisa l'adesione della lira italiana alla moneta unica, operata secondo un meccanismo di conversione che commise un errore incalcolabile, amputando il potere d'acquisto dei risparmiatori italiani i cui effetti proseguono tuttora.

Il "bail in" è la faccia rovesciata del "bail out" (letteralmente: "garanzie all'esterno")  nel quale il dissesto è invece affrontato con risorse tutte fuori (out) dall'impresa, come ad esempio il ricorso alla fiscalità generale.

Esso quindi è la conferma definitiva della trasgressione radicale dello schema federalista europeo, non intrinsecamente ingiusto, ma per il suo incastonarsi in  una serie di accordi dell'euro zona largamente sperequata nei tempi e nei paesi della moneta unica (molte banche tedesche hanno operato le loro ristrutturazioni appena prima dell'accordo sul "bail in").

In altre parole, almeno nel quadro delle italiche esperienze, ciò significa che la fiscalità generale indigena deve gradualmente abdicare alle funzioni cui era storicamente vocata per intervenire in ogni crisi di natura sociale mentre, specularmente, stentano a svilupparsi moduli assicurativi di ambito europeo.

E dove soprattutto vediamo nella Bce di Francoforte il centro propulsore ed egemonico di tutta la politica monetaria ed economica europea.

E dove le funzioni del nostro paese volgono in misura crescente verso connotazioni di carattere terziario.

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