Con l'eco aggiuntiva delle connesse ripercussioni in casa Mediaset (ventilata cessione di Premium, di Pier Silvio Berlusconi), la fase di transizione del gruppo Tim appare ormai in via di consolidamento definitivo.
Precisamente si profila sempre più concretamente l'ipotesi che la guida del gruppo, di chiara matrice italiana (per proprietà azionaria e per responsabilità gestionale), stia per trasferirsi in mano al gruppo francese che fa capo all'imprenditore e capitalista Vincent Bollorè, capo di Vivendi, colosso francese dei media e delle comunicazioni.
Il percorso e la sorte di Tim non è una novità nel panorama imprenditoriale e capitalista italiano.
E' ormai statisticamente assodato che il fenomeno del passaggio proprietario e gestionale (in termini di controllo azionario e/o direzionale) di numerosi gruppi e società italiani, caratterizza da tempo tutto il firmamento dei comparti produttivi nostrani.
Fenomeno interpretabile variamente, a seconda del punto di vista con cui lo si guarda: essenzialmente, dal punto di vista della manodopera, del capitale o del benessere nazionale.
Il tutto avviene sulla base di un assunto dottrinale che vede paradossalmente convergere, in termini ideologici, il pensiero socialista della sua originale concezione e, in termini di comportamento concreto, il grande e piccolo capitale d'impresa.
Alludiamo al principio per cui "il capitale, per sua intrinseca vocazione, non ha patria", secondo un magistero storicamente difficilmente confutabile.
Ma dal punto di vista del benessere nazionale, l'essenza erratica del capitale (il suo spostarsi continuo alla ricerca della maggiore redditività possibile) riserva molte deprimenti conseguenze.
Il passaggio del controllo del mondo delle imprese italiane, negli ultimi tre lustri, sia di piccole come grandi dimensioni, presenta anzitutto un chiaro saldo passivo per l'Italia.
Il capitale straniero acquista, dal mercato azionario italiano, assai più di quanto quest'ultimo acquista sui mercati esteri: questo in diretta e principale connessione con il diminuito potere d'acquisto delle nostre risorse finanziarie, derivate dalla conversione della nostra moneta
E questo concerne imprese di interesse nazionale economico e strategico, come appunto Tim (comunicazioni), Alitalia (immagine nazionale) e Fiat (assurta, con Chysler e capitale americano, a livello mondiale ed in crescente fuori uscita dal mercato del capitale italiano).
Le ripercussioni, sul terreno occupazionale e su quello del ricorso preferenziale ad applicazioni interne di criteri basati sull'automazione, sono evidenti.
E infatti indubbio che la tendenza al ricorso all'esternalità di molte funzioni di servizio e soprattutto alla dislocazione in territori esteri, penalizzerà sempre più l'ambito territoriale italiano: con motivazioni analoghe a quelle imprese italiane che acquistano, o si espandono, all'estero.
Tutte circostanze che soprattutto depotenzieranno ancor più il potere d'acquisto della collettività italiana, dato l'esame comparativo del costo della manodopera italiana e di quella di alcuni paesi europei, dove il costo del lavoro è inferiore al nostro, e con la possibile riesumazione di provvedimenti ispirati al metodo Bolkestein.
Così si chiude il cerchio, inaugurato con il sopruso di una conversione concepita a nostro pieno e incalcolabile nocumento e proseguita da tutta la politica successiva (in piena consonanza con quel sopruso).
Cioè con la cessione della sovranità monetaria (accettabile solo in una visione federalista), ma soprattutto con l'espropriazione di ampio potere d'acquisto ed in prosieguo con "il Fiscal Compact" (e connesso "Bail in").
Questo è il quadro in cui si sta consumando, quasi nell'indifferenza, la retrocessione italiana a paese di servizi, di eccellente manodopera a buon mercato e con una politica produttiva in saldo controllo straniero.
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