domenica 20 marzo 2016

Quesito a Bce: oltre alle invocate riforme, perché non parlare di titoli derivati, loro rischi ed origini ?

Che Mario Draghi, presidente della Banca Centrale europea, cosciente dell'insufficiente impulso del "Quantitative easing" per la ripresa economica europea, enfatizzi l'esigenza preliminare di una politica di riforme istituzionali in ogni paese dell'euro zona, può essere, psicologicamente, comprensibile e non del tutto infondato diversivo.

Nelle allocuzioni che Draghi pronuncia periodicamente al cospetto dell'assemblea dei parlamentari europei, sarebbe tuttavia altamente auspicabile un maggiore sforzo di più consoni accenti e più persuasive analisi critiche sul (basso) grado di sviluppo dei paesi dell'euro zona, nel panorama di una visione economica globale.

Come efficacemente ricorda il periodico "pagina 99" del 19 marzo, la politica dell'abbondante irrorazione di moneta consentita dal "Quantitative easing", ha infatti conseguito finora risultati assai modesti.

Il bilancio complessivo dell'operazione è addirittura riconducibile alla nota (e perdente) strategia del "pushing on a string" (spingere una corda): fatto evidentemente impossibile, perché le corde possono, esclusivamente, tirare o frenare.

L'espressione fu coniata precisamente nei dibattiti in cui, nel 1934, la parte del Congresso Americano non favorevole al Governo Roosvelt, non esitò a ricorrere per censurare l'intervento finanziario del Tesoro Americano nel Tennessee, per la realizzazione di grandi (e necessarie) opere pubbliche.

In realtà, in quel caso, non si trattò di "spingere una corda", perché le opere pubbliche messe in cantiere, riuscirono infatti a ridare possente e decisivo rilancio dell'economia statunitense, prostrata dalla crisi mondiale e storica del 1929.

Al contrario, la situazione attuale europea soffre di una carenza globale di domanda, di investimenti come di spese di consumo, che caratterizza oggettivamente i mercati interni ed esterni e che la finanza internazionale tenta di governare come può, secondo criteri non facilmente condivisibili.

L'Italia, come recentemente asseverato dal FMI (Fondo Monetario Internazionale), si trova purtroppo ad essere l'economia che, nel bilancio complessivo dei primi tre lustri di vita del nuovo secolo, ha conseguito i risultati peggiori (vedasi ns post del 13 marzo).

Il nostro paese, infatti, è chiaramente contagiato da quelli che sono i focolai più infettivi della debolezza del sistema economico occidentale complessivo e principalmente rappresentati dalla diffusione illimitata dei titoli di credito derivati, la cui gran parte derubricata come sofferente od addirittura non ricuperabile.

Notoriamente, la loro dimensione, su scala mondiale, è valutata circa dieci volte quella dei titoli delle fattispecie tradizionali: da cui è facile desumere come i rischi conseguenti al loro buon fine, sono stati, sono e saranno fatalmente proporzionali sia al loro elevato carattere speculativo come al loro smisurato ammontare.                    

E' pienamente legittimo, forse anche per altri paesi, ma sicuramente per l'Italia, chiedersi se questa patologia, ben diagnosticabile nel tessuto bancario nazionale, non sia stata fomentata, più che altrove, dalla conversione nella moneta unica.

Una conversione, effettuata secondo un meccanismo radicalmente sbagliato (di effetti tuttora perduranti), che penalizzò pesantemente la nostra vecchia lira ed espropriò il mercato italiano di parte incalcolabile del suo potere d'acquisto, a speculare vantaggio del marco tedesco.

Anche se Draghi, nel 1998 (anno della conversione) era alto manager di Goldman Sachs, non ebbe percezione (come ex alto dirigente Bankitalia, e successivamente suo governatore) del carattere leonino di quella conversione ?

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