giovedì 8 ottobre 2015

La crisi mediorientale, gli equilibri mondiali e l'insufficienza della competizione monetaria

Il "Secolo breve", di Eric Hobsbawm,  è un grande affresco, della storia del ventesimo secolo con le sue immani tragedie (le guerre) molto a stento riscattate dalle sue luci (le leggi sociali), visto dal punto di vista occidentale, meglio ancora europeo.

Il titolo dell'opera, come è noto, circoscrive il significato del secolo nel periodo dei 75 anni circa intercorrenti dallo scoppio della prima guerra mondiale (1914) alla dissoluzione del'Unione sovietica (1991).

Ora, a metà del secondo decennio del ventunesimo secolo, ci troviamo ancora una volta davanti a situazioni, quella medio orientale in specie (Siria ed Irak), che, a memoria dei non pochi che già le vissero personalmente, costella la politica mondiale con gli stessi dilemmi, di guerra o pace, affrontati nel secolo scorso.

In particolare il dilemma della possibile ipotesi di guerra fra grandi potenze, con il protagonismo attivo e responsabile (se è appropriato l'aggettivo) delle grandi potenze economiche e militari di tutto il mondo.

Vediamo infatti Usa, Russia, Cina, in reciproca competizione fra loro, cui si aggiungono, nelle aree rispettive di competenza, Europa e Giappone, ed il corollario variamente influente, di tutte le comunità delle Nazioni Unite.                

Forse "Il secolo breve", dall'angolo visuale di questo primo scorcio del nuovo millennio, merita la sua definizione come fase storica di crogiolo di una nuova era di comportamento fra i popoli: cioè la cessazione, almeno dal punto di vista ideologico, genericamente accolto, del colonialismo e dell'occupazione militare di una nazione sull'altra.

La concezione di un equilibrio mondiale basato sul confronto delle monete, teoricamente razionale,   non riesce tuttavia a concretizzare una prospettiva che escluda il ricorso alla guerra, vuoi per le tensioni sociali della povertà mondiale, vuoi per la sostituzione dei rapporti egemonici basati sulle armi con quelli della dipendenza economica.

L'emigrazione è la riprova di questa pressione mondiale dei popoli più sfortunati e la cartina di tornasole della fragilità del sistema, basato su dislivelli di ricchezza e di povertà che mettono drammaticamente a rischio la sopravvivenza stessa delle popolazioni in vaste aree del pianeta.

La storia del mondo incrocia infine due componenti impreviste di cui l'umanità si rende consapevole con fatica e tardivamente, ma soprattutto incerta sul come affrontare i possibili rimedi: i conflitti di religione e la mutazione ecologica.        

In questo scenario, il fatto stesso che il punto cruciale di crisi investa il Medio Oriente, non deve indurre a considerarlo strategicamente un conflitto classico di predominio per il controllo delle fonti energetiche.

Queste frettolose riflessioni, con l'iniziale riferimento a "Il Secolo breve", mirano infatti a valorizzare ancor più il profondo significato che Eric Hobsbawm ci ha trasmesso con il suo lavoro.

Il futuro, in cui l'umanità può riconoscersi, non dovrà essere il risultato del prolungamento dei metodi del passato (e tuttora minacciosamente incombenti) nei rapporti di forza internazionali.

Senza la capacità e l'ampiezza di una catarsi generale, l'alternativa sarà il buio.

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