lunedì 30 marzo 2015

L'ottimismo (condizionato) di Draghi, l'inflazione e le riforme strutturali

Le frequenti allocuzioni di Draghi, ultima quella della sua prima audizione alla nostra Camera dei deputati, non si allontanano mai dal consueto refrain.

"La Bce con il provvedimento del “quantitative easing” favorisce il calo dei tassi, ed il mini euro (cioè l'aumento dell'inflazione) dovrebbe favorire il Pil del nostro paese di almeno un punto percentuale entro il 2016".

Ma subito soggiunge: "purchè l'Italia realizzi le riforme strutturali".

La Bce, insomma, come conferma una intervista di Jean Claude Trichet (suo predecessore alla presidenza della Banca di Francoforte) di pochissimi giorni or sono, è sempre categorica nel sottolineare la validità dei suoi provvedimenti: i cui benefici risultati possono essere compromessi solo dall'inadempienza dei paesi dell'eurozona nella loro politica riformatrice.

Non si comprende, comunque, in base a quali presupposti questi signori della moneta unica possano attingere tanta sicurezza nelle proprie iniziative in uno scenario complessivo che vedono tutta l'eurozona in una crisi perdurante di stagnazione e la cui durata è ormai prossima al compimento di due lustri.

La loro insufficienza emerge infatti chiaramente dalla genericità delle risposte ai quesiti, peraltro non malevoli, (tranne forse quello relativo al suo periodo di lavoro alla Goldman Sachs) che i deputati hanno scelto di rivolgergli.

Il motivo sottinteso delle sue risposte sembra sottolineare costantemente i benefici registrati dalle banche (e ci mancherebbe pure che non lo fossero, dopo tutti i finanziamenti a tassi super agevolati) e la necessità di uscire dallo stato di costante deflazione: il cui rammaricarsi ipocrita appare quasi un “must” della stampa ufficiale nostrana ma dimentica purtroppo la sua origine autentica, riconducibile soprattutto alla caduta generalizzata del potere d'acquisto dei consumatori europei.

Né appare attraente il sottolineato vantaggio di creazione di una bad bank, per raggrupparvi tutte le situazioni di insolvenza del mondo del credito: secondo una scuola di pensiero che risale, per l'Italia, ai tempi della creazione dell'Iri di oltre ottant'anni or sono, cioè in situazione di piena sovranità nazionale.

E che oggi difficilmente potrebbero trovare nel quadro complessivo dell'eurozona possibilità di esecuzione.

Il tutto in un quadro assolutamente inesistente, nell'ufficiale disinteresse di tutte le autorità competenti europee, corifeo la Bce medesima.

Per concludere, è lecito giungere alla conclusione che Mario Draghi, sia come economista sia come europeista sia assai lontano dal possedere le credenziali che si auspicava dovessero competere al presidente dell'Istituto regolatore e sovrano della moneta unica europea.

Con l'aggravante specifica aggiuntiva dell'indifferenza con cui, nel periodo della sua esistenza, la Bce non ha mai ritenuto di considerare le modalità di nascita dell'euro come possibile elemento originale delle criticità economiche tutte in capo all'Unione europea stessa.

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